lunedì 24 settembre 2012

TARQUINIO vs. DARWIN

Avevano pensato fosse bene prima scavare nel sapere, riordinarlo poi passare avanti. Così era stato fatto. Il risultato era stato devastante. Non c’era nessun avanti, tra sgomento e sorpresa di una mente saturata alla vigilia delle vacanze.

Tarquinio poggiò le chiappe fasciate di lino sul sedile in pelle della multipla, diretto in banca per una sbirciata all’estratto conto.

330€.
Bastavano.

La notte prima aveva visto bene nei suoi incubi. A stento riusciva a parlare, sovrastato da una vegetazione di peluria che si estendeva dal collo alle piante dei piedi. Terrorizzato, si stava guardando nello specchio. Nel sogno vedeva riflesso l’immagine di sé, sovrastato da protezioni pilifere. Da cosa doveva proteggersi? E che differenza faceva, se era in un sogno o nella realtà? Lo specchio si limitava a riproporre ciò che vedeva, restituendolo al coraggioso spettatore.

La voce alla radio raccontava di un famoso darwinista che, presente in studio, prese la parola. Era un inamovibile osso di titanio definito, coi suoi pungenti interventi era riuscito a inimicarsi la maggior parte dei colleghi, paladini della scienza moderna.

Altezzoso, sprezzante, condannava le istituzioni religiose sostenendo che quel modo antiquato, strumentalizzante, di vedere segnato il destino dell’uomo era una vecchia favola ripetuta come una melliflua ninna nanna alle masse dormienti per tenerle sospese in un sogno a occhi aperti che tanto faceva comodo all’Elite al potere.

Tarquinio non aveva neanche bisogno di prestarvi attenzione, avendo già identificato la radice di quel malessere professionale. Proiezione: l’uomo di scienza condannava una struttura di pensiero strutturalmente identica alla sua. Di fronte all’altezzosità delle istituzioni religiose s’alterava indignato, quando egli stesso si comportava alla medesima maniera e, per tanto di cose, all’orecchio dell’attento ascoltatore risultava un ninnanannatore altrettanto mellifluo, altezzoso, saccente e fastidioso.


Stava lottando contro uno specchio.
Lo specchio.



La Coop era affollata di acquirenti scontrosi.

Una volta erano stati esigenti, mansueti compratori di merci. Adesso erano cambiati. La scintilla che ve li spingeva era l’opaco ricordo di meccaniche abitudini passate. Un ritrovo come un altro, un perimetro ingombrato di mattoni e compensato adibito a indirette relazioni con le altre persone, con immancabile acquisto di beni di consumo come fine ultimo.


Consumati dal consumo.

Durante gli ultimi 2 mesi la vecchia signora Manni era peggiorata. Aveva dato eccessivo credito alla diagnosi del dottor Settimio Orlanzi - primario dell’ospedale di Rovereto - e il corpo aveva seguito il percorso tracciato dalla mente stanca, ottenebrata da calmanti, cortisone, antidolorifici. Per attraversare la strada impiegava due giri di semaforo.

Tarquinio non provava rabbia, ne pena.

Sarebbe stato ipocrita, sapeva bene che ognuno è il solo artefice del proprio destino; il medico poteva dirle ciò che voleva, era stata la signora Manni ad accettarlo per irreversibile verità. La mente, le gambe, la schiena avevano fatto il resto. Avevano eseguito i comandi con mirabile maestria.

Suo marito aveva seguito un copione identico, finendo seppellito tra gli sbadigli dei “suoi cari” esattamente un anno primo, in quello stesso giorno.


Incredibile di cosa fosse capace la mente umana. Aveva escogitato astuti inganni per convincere l’uomo della sua fragilità.

E tutti gli avevano creduto, persino lo scienziato della radio, coi suoi bei discorsi sulla legge del più forte.

Presto sarebbe stato tutto ciò che già era; solo un brutto sogno.


“Non è tanto. Basterà”.
“Ho preparato le valige. I bambini sono vestiti”.
“Partiamo subito”.

Alle 12:04 di lunedì 24 settembre 2011 la famiglia Sementi saliva sulla multipla, composta e indolente, per correre incontro al proprio destino. Tarquinio sapeva bene. Ne aveva discusso con Alessia, che aveva altrettanto capito. I bambini, non abbastanza grandi da essersi persi nella trappola del linguaggio codificato, avrebbero seguito i genitori nell’ultimo viaggio.

Ironico che fosse anche il primo.


Nell’abitacolo ondeggiava un silenzio mentale, tacevano tutti e 4. La voce del darwinista rimbombava autoritaria, definitiva, come la predica di un prete luterano tedesco.

“Pensa di avere l’esclusività sulla ragione”.
“L’università ha questo scopo: convincerti che esiste una sola verità, quella del tuo corso”.
“Viaggiamo sullo stesso binario”.
“Noi, almeno, siamo discreti, mica rompiamo le palle a migliaia di ascoltatori”.
“Non eravamo forse noi, padroni del nostro destino? Se un essere è dotato di tanto potere, compreso negli optional avrà l’energia per azionare l’indice, puntarlo verso il tasto tuning dell’autoradio e porre fine a questa tortura”.
“Scherzi? Mi interessa. Sai che faccio? Adesso gli telefono”.
“Sei davvero disposto a un match di squash contro il muro? Nessuno ha mai vinto contro il muro”.
“Non si tratta di vincere o perdere. Ho voglia di divertirmi”.
“Fa’ come credi. Sei padrone delle tue stronzate”.
“Avevamo detto niente parolacce davanti ai bambini”.
“Prendi per il culo? I nostri bei discorsi saranno solo un curioso, lontano oiaheroaihraoh nelle loro testoline”.
“Hai ragione. Fanculo”.
“Stronzo”.
“Scrofa”.
“Impotente”.
“Frigida”.
“Mamma”.

Il veicolo frenò, in concomitanza col semaforo rosso. I coniugi Sementi si guardarono sbalorditi. Nicolas aveva detto la sua prima parola.

Ormai era spacciato.

C’era tutto il tempo per soffrire, esattamente due giri di semaforo; la signora Manni doveva aver dimenticato qualcosa al supermercato. Insieme al raziocinio.

“Dietrofront?”.
“Tanto non ero convinta. E neanche tu”.
“Scherzi? Questa era la volta buona”.
“Come le altre 3”.
“Il 3 ha un valore esoterico importante”.
“Mi sa che dovresti fare 4 chiacchiere col darwinista alla radio”.
“Mi sa pure a me”.

Mentre la signora Manzi s’accasciava al centro dell’incrocio, spargendo arance e barattoli ovunque, la multipla coi Sementi a bordo faceva inversione di marcia, e le dita di Tarquinio componevano un numero di telefono stronzo.

“Pronto? Salve. Seguo i suoi studi da molti anni con grande divertimento. Tra le letture di gabinetto, insieme ad “Ava Lavatrice” e il manuale del Nokia rimarrà sempre un evergreen. Volevo farle una domanda che probabilmente mai avrà sfiorato la sua immaginazione neanche per scherzo: è davvero è convinto che una scimmia possa definirsi evoluta dopo quello che abbiamo creato? Se la bomba atomica, il debito pubblico e i calla center sono i traguardi di una mente evoluta, allora posso definirmi orgoglioso discendente di Paperino”.

E riattaccò immediatamente sghignazzando.

“Adesso ti senti meglio?”.
“Sì. Decisamente. Penso che non penserò al suicidio per almeno due settimane”.
“Che ne dici di farci una vacanza vacanza vacanza?”.
“Tu e il tuo bisogno di vacare. Non ti senti a tuo agio nel tuo piccolo mondo antico fatto di sapori e fornelli?”.
“Citarmi una [battuta] di Abatantuono ti rende…”.
“Involuto?”.
“Esatto”.
“Visto che il muro si può battere anche a squash?”.
“Prima o poi riuscirò a convincerti ad entrare in analisi”.
“Quando batti il muro a squash è perché quel muro non è abbastanza bravo”.
“Ecco perché ti ho sposato: avevo bisogno di un matrimonio pieno di solitudine”.
“È un matrimonio come tutti gli altri. Noi almeno ci diciamo le cose in faccia”.
“Freeeenaaaaaa”.

Dopo quel semaforo rosso ignorato, il mondo aveva un darwinista in meno.

E molto più tempo per riflettere.

Che significato potrebbe avere questa storia?
E chi ha stabilito che debba per forza esserci "significato" dietro ogni cosa?
E' solo un altra perversione della mente umana.
Guarda la tua vita; ha veramente significato?
Appunto.

Alla settimana prossima.
Vi amo tutti

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