Visti i tragici stati emotivi che può far provare una domenica piovosa come quella di ieri, a pranzo mi sono sparato “The Elephant man”.
L'ho visionato sotto un'altra ottica; quando lo vidi a 19 anni approcciai a questo film come un “saccente critico cinematografico del cazzo”.
Mi piacque ma il reale significato del film non lo avevo manco visto col telescopio.
Al di là del marchio di fabbrica, della “poetica lynciana”, che nel film emerge sotto forma di 4 visioni oniriche (questo e “Una storia vera” sono gli unici 2 film “normali” del vecchio David), il film narra chiaramente dell'iniziazione esoterica, cioè quella a cui ci sottoponiamo durante il corso della vita.
Da dove ho tirato fuori questa cazzata simil new age?
Be', basta il finale.
Dopo aver finito di “costruire il suo tempio” (il modellino della chiesa [della quale il protagonista, dalla finestra della sua stanza da letto, riusciva a vedere solo la parte superiore]), John Merrick decide “andare a dormire”, “a pancia in su”, consapevole che così “morirà” perché ha la schiena coperta di bubboni tumorali e la testa troppo grossa.
Chiude gli occhi.
Appare l'effige della madre al centro di una cornice trapassata da strane esplosioni sospese nel Cosmo, e gli rivela “Nulla può morire”.
Non so fino a che punto uno spettatore o un critico si possa inventare che quel finale “è la metafora della visione anti capitalistica del regista”, oppure “l'orrore e il dissenso nei confronti delle missioni spaziali espresso dal regime Castro”, tanto meno “il frutto di un'indigestione di cozze dello sceneggiatore, che scrisse il film appena tornato dal pronto soccorso (e dalla lavanda gastrica).
Per cena ho mangiato patate al forno e carciofi in padella.
Poi mi sono fatto lo spuntino coi pistacchi mentre guardavo “Invito a cena con delitto”.
Poi a nanna.
Viaggi onirici sotto le coperte.
Nei sogni c'erano schermi al plasma di laptop invase da immagini di videogiochi 2-D a 8-bit che spiegavano come un computer possa Decidere di spegnersi beccandosi un virus volontariamente, consapevolmente, perché stanco dei “pensieri” che gli metteva nell'hard disk il suo proprietario, che lo riempiva quotidianamente di cazzate porno e noiose giornate tra facebook, chat insulse, e a leggere di giochi di ruolo su wikipedia.
C'erano come dei razzi che si levavano in cielo – sembrava un bombardamento – poi le luci si schiantavano contro palazzi distruggendoli.
Erano entità luminose e furiose, ruotavano in cerchio come tornado, travolgendo tutto.
A vederle bene erano anime.
Se si scagliavano contro una superficie la sgretolavano. Se urtavano gli esseri umani si impossessavano di loro e i corpi si accasciavano, mentre l'anima del “travolto” finiva a vorticare con le altre anime che brillavano e strillavano come in un girone dantesco.
Ho visto la spirale di dannati attraverso la porta d'ingresso di un'abitazione. Preso dal panico (mentre pensavo “cazzo, che figata”) io correvo su per delle scale, mi rifugiavo in un cesso insieme a non so chi. Lui chiudeva la porta e teneva la maniglia tirandola a sé, mentre le anime ci sbattevano contro pugni, calci. La porta si stava rompendo. L'uomo mi diceva di spaccare lo specchio attaccato al muro e io eseguivo tempestandolo di pugni, perché sapevo che potevano entrare nel nostro rifugio anche da lì, e mentre questo si crepava (senza rompersi), dall'altra parte scorgevo facce di fantasmi che davano testate per entrare nella nostra dimensione di cesso (sicuramente non per farsi una cagata ectoplasmica).
Un'altra scena si svolgeva in un bar, quello dove mi rifugiavo quando marinavo la scuola alle superiori.
Era arredato diversamente, più spazioso, ed era gestito da un mio amico (che nella realtà, in quel bar non c'ho mai visto).
Mozziconi di sigaretta per terra, ampi squarci di luce fendevano gli ambienti costellati di grandi televisori.
Trasmettevano partite di tennis e video musicali.
Poi mi ritrovo in un negozio di musica dove avevo portato ad aggiustare il mio amplificatore (che nella realtà è un Fender85W, nel sogno era qualcosa simile a un valvolare vecchio stile), e discutevo col commesso per farmi fare lo sconto.
Mi telefona mia madre. Rompe i coglioni anche nell'altro mondo.
Poi non mi ricordo più.
Quando mi sveglio sono lì, metà nel corpo e metà nel regno astrale.
Se ci fate caso, al mattino appena svegli, viviamo la sensazione di vuoto.
I pensieri nella testa sono confusi, come fossero echi di riverberi di voci indistinte, il che rende molto facile ignorarli, per gravitare liberi in quello spazio “vuoto”, quella zona franca tra il mondo di “logos” e il regno di Morfeo.
Con un bel po' di pratica sono riuscito a rimanere anche per un oretta tra il sonno e la veglia, riuscendo a percepire il corpo, lo spazio infinito all'interno di esso, e non i pensieri.
Il trucco sta nel concentrarsi sulle immagini - che sono più contorni evanescenti di forme geometriche; “lucine bianche” - e ad ignorare il flusso di coscienza.
Diventa estremamente facile “non pensare a niente”.
Basta volerlo.
Anzi; basta ignorarlo.
Mano a mano che ricomincio a dar retta all'infinito disco ciarliero dei miei pensieri, inizio a riflettere muovendomi in mezzo ad essi, proprio come se quel tornado di anime fantasma mi vorticasse nella mente e io, al centro, ricevo rivelazioni.
Non chiedetemi come, non chiedetemi perché, al centro dell'uragano ectoplasmico ho elaborato questo ragionamento.
Ora cercherò di tradurre A PAROLE le IMMAGINI, il film che la mia mente stava proiettando mentre osservavo le “lucine” sospese a chilometri dai miei occhi semi svegli.
Quando decidiamo di incarnarci in un corpo umano (cioè quando l'animaccia nostra si scaglia dentro un feto, che diventerà un bambino che si tramuterà in un consumatore che di più di una gigantesca farmville e una bella casa su Second Life non arriverà a desiderare) avviene più o meno questo.
Immaginate il corpo umano come una bottiglia di vetro.
Noi-Anima siamo “allo stato liquido”, vediamo una bella “bottiglia” e ci entriamo.
Non so chi, non so perché: Qualcosa (rettiliani? Satana? La prostata di Napolitano? L'ego di Berlusconi) fa sì che una volta dentro non potremo più uscire dalla bottiglia fin quando non “moriremo”, cioè quando abbandoneremo la “bottiglia” per ricominciare il ciclo, tornando a essere “liquidi” che sceglieranno un altra “bottiglia”.
Facile come pisciare controvento, no?
Per non farci “colare fuori dalla bottiglia”, quel Qualcosa di cui ci mette un “tappo”.
Questo “tappo” sono i nostri pensieri.
I pensieri sono come un disco che crediamo di aver inciso con la band di cui siamo l'indiscusso leader.
Anzi, è il disco di una “one man band”: noi suoniamo tutti gli strumenti, come una grande orchestra con tanti strumenti, tutti suonati da un uomo soltanto.
Ascoltiamo, riascoltiamo continuamente i nostri brani ogni attimo del giorno, compiacendoci di “questo passaggio di chitarra” o “quella linea di batteria”.
Giudichiamo gli arrangiamenti, cerchiamo di modificarli, ce la prendiamo col bassista (anche se il bassista siamo sempre noi).
Col tempo dimentichiamo che quello è un disco, tanto meno che non lo abbiamo suonato noi.
Il disco suona tutta la vita fino a quando non tolgono il tappo, usciamo, ci infiliamo in un altra “bottiglia” alla quale riapplicano il tappo e ci regalano un nuovo giradischi.
Lo stato in cui gravitavo quando stamattina ho pensato a queste cose lo si raggiunge anche da svegli. Lo chiamano “stato teta”, e prende il nome da una particolare frequenza di onde cerebrali.
Si raggiunge quando si medita.
Ovviamente ci riesce chi medita tutti i giorni, da tanto tempo.
Quando si medita e si raggiunge quello stato di coscienza, che succede?
Capiamo che TUTTO IL RESTO è solo un disco, poi capiamo che non lo abbiamo suonato noi. Iniziamo ad ascoltarlo senza infamia ne lode; più che ascoltarlo lo “guardiamo girare”.
Mano a mano che la musica si fa più lontana, ci rendiamo conto di essere quel “liquido” e facciamo di tutto per scorrere all'interno di noi stessi.
Si raggiunge l' “Illuminazione” quando si abbraccia questa verità su tutti quei piani che vanno oltre la comprensione “logica”; capire con la mente la Verità non basta.
La logica sono pensieri; i pensieri sono il disco; il disco è una trappola (gli indiani d'America lo chiamavano “lo sfidante”, altri “ego”).
PACE significa “tornare allo stato liquido”, ed esserlo incondizionatamente.
I pensieri sono un trucco, un diversivo che ci fa dimenticare la nostra natura.
Siamo il silenzio che è sempre stato – e sempre sarà – oltre quella musica inutile, che non è nostra, che non abbiamo suonato e che neanche ci piace, perché invece di farci danzare ci scoraggia e ci deprime.
Per quanto densa, una “musica mentale” non potrà mai Essere come il silenzio interiore, nella sua assenza di struttura e spessore.
Bruce Lee diceva che nel combattimento bisogna essere fluidi e imprevedibili come l'acqua. L'acqua non ha forma e non la si può fermare.
Noi siamo “acqua” che si percepisce ferma e prevedibile perché è stata arginata, “messa dentro un contenitore”.
Ogniqualvolta ci ricordiamo cosa veramente siamo, cioè Qualcosa di fluido, imprevedibile e inarrestabile, nulla può contenerci, nulla può fermarci.
Domenica prossima voglio guardarmi “Io zombo, tu zombi, egli zomba” a pranzo, “ Il Cavaliere Costante Nicosia demoniaco, ovvero: Dracula in Brianza” a cena, non fare lo spuntino dopo cena, e vedere checcazzo succede.
A presto.
2 commenti:
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"Non so chi, non so perché: Qualcosa (rettiliani? Satana? La prostata di Napolitano? L'ego di Berlusconi) fa sì che una volta dentro non potremo più uscire dalla bottiglia fin quando non “moriremo”"
Entrare e uscire dalla bottiglia è illusione!
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