lunedì 19 novembre 2012

EYE IN THE EYE




Giorni fa, mi pare giovedì, nell’occhio mi è entrato un pezzettino di ramo, caduto da un albero, grande approssimativamente come la metà di ¼ di chicco di riso. Si è poggiato in un punto che non compromette la vista.

È soltanto fastidioso.

La mia attenzione vaga. Ogni tanto ritorna lì, a quel fastidio.

Ho un problema: sono incapace di toglierlo.

A meno che un esperto applichi un divaricatore alla palpebra costringendomi a spalancarlo, tenere l’occhio aperto risulta impossibile. Appena vedo un dito - sia anche il mio - avvicinarsi minaccioso, serro l’occhio d’istinto.

Mi ricordo la sera di Halloween di 11 anni fa. Ti ricordì, Sa’?.

Ci dovevamo mascherare per andare a una festicciola (che in realtà non c’era) in un horror pub, e vagammo attorniati dal saggio freddo delle montagne, strafatti di un discreto hashish impossibile da apprezzare perché le temperature corporee oscillavano tra 0 e 3°C.

E tu provasti a truccarmi gli occhi, invano.

Niente. La matita s’avvicinava, l’occhio tirava giù le serrande.

Fui un Corvo parzialmente truccato. Fondotinta sì, matita no.

Non riesco a capire perché tutto questo terrore verso una parte del mio corpo, manco fossi un cristiano castrato dell’800 incapace anche solo di toccarsi l’uccello, figurati masturbarsi. Deve essere stata la scena finale di “Guinea Pigs: The Devil Experiment” a farmi litigare con suddetto organo.

E quello se ne sta lì, appollaiato come una piccola zecca assetata.

A dire la verità, appena resomi conto che qualcosa s’era intrufolato nell’organismo, pensai fosse l’ala di qualche insetto. Ho pensato “prima o dopo andrà via da sola. Il corpo rigetta ciò che gli è estraneo, essendo una macchina perfetta, capace di auto tutelarsi”.

Nel pomeriggio, mentre guardavo estasiato “Il Volto” di Bergman, ho fatto esercizi oculari finalizzati a lacrimare, sperando di debellare il flagello bashtardo. Fissavo scomodi punti del campo visivo. Ho provato a fissare la luce di una candela. Niente. Ho visualizzato ignote porzioni di campo visivo, brandelli spettrografici e anfratti cromatici fantastici.

Lacrimando, senza risultato.

Le paranoie sono arrivate puntuali, come un treno per l’ade. Ho visualizzato fotogrammi di Cronenber tratti dai primi film, quelli sulla “nuova carne” e la necrosi dell’organismo. Mi sono immaginato l’ala d’insetto andare in putrefazione, riempirsi di vermi che mi divoravano pian piano l’occhio fino a che un infezione craniale mi costringeva ad andare all’ospedale, dove l’avrebbero rimosso.

Ma poi mi sono convinto che era solo un rametto, ed è così, perché macchie bianche con la coda non ci sono.

Eppure rimane lì, a fissarmi gli occhi (letteralmente).

Ci ho riprovato dieci minuti fa.

L’occhio si chiude.

Quando inizierò a impazzire, vedrò di andare al pronto soccorso.

O magari se ne sarà andato via da solo.

Spero.

Volevo scrivere un post che, forse, scriverò presto, incentrato sull’atrocità qualunquistica irreale di cui la recitazione (e i dialoghi) nei disaster movie - come “The day after Tomorrow” - è totalmente schiava/ serva succube.

Se un asteroide grande come un appartamento ti sta arrivando addosso, col cazzo che “esclami”: - Mio dio, è impressionante, dobbiamo fuggire - . Come minimo ti viene una paralisi, o al limite bestemmi Cristo, ti caghi addosso e inizi a strillare nel tuo dialetto.

Pazzesco.

Ok.

Ci sentiamo presto.

Pregate per me.

Abbiate un occhio di riguardo.

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